Un importante studio conferma la possibilità di cercare una gravidanza in sicurezza dopo la chemioterapia per la cura del tumore al seno.
Il carcinoma alla mammella è statisticamente una delle più frequenti forme tumorali nelle donne in età fertile. Nel 2020, in Italia, sono stati stimati circa 55mila nuovi casi di tumore al seno ed il 6% riguarda le donne al di sotto dei 40 anni, con oltre 3000 casi all’anno.
La scoperta del tumore inevitabilmente porta la donna a dover attraversare una fase molto delicata della propria vita ed a porsi tanti interrogativi sul futuro, anche sul desiderio di diventare mamma.
Due sono le preoccupazioni principali nei confronti di una possibile gravidanza.
La prima riguarda gli eventuali effetti nocivi dei pregressi trattamenti sulla gestazione e sullo sviluppo del bambino.
La seconda attiene alle conseguenze che la gravidanza potrebbe comportare in termini di riacutizzazione della malattia neoplastica.
In passato, si riteneva che la scoperta di una gravidanza potesse incidere negativamente sulla prognosi delle donne con pregresso tumore mammario; in realtà, i dati clinici attualmente a disposizione dimostrano come si possa cercare una gravidanza dopo una diagnosi di tumore al seno in totale sicurezza tanto per la madre quanto per il bambino.
A confermarlo è un’ampia metanalisi (vale a dire: un’analisi combinata di diversi studi), in cui sono confluiti i dati di oltre 114 mila giovani donne cui era stato diagnosticato un carcinoma mammario, presentata, a dicembre del 2020, al San Antonio Breast Cancer Symposium, uno dei più importanti Congressi internazionali dedicati a questa neoplasia.
I risultati della ricerca sono stati discussi anche in Italia lo scorso gennaio al convegno “Back from San Antonio”, coordinato dalla Breast Unit dell’IRCCS Ospedale Policlinico San Martino- Università di Genova.
Si tratta, indubbiamente, di una delle più ampie casistiche al mondo trattate sul tema.
Questo studio è stato finalizzato a monitorare la salute della donna, dei feti e dei neonati, valutare la presenza di possibili eventuali complicanze emerse durante la gestazione ed il parto sia per la madre che per il bambino, nonché analizzare le probabilità statistiche in termini di sopravvivenza.
Due sono gli aspetti che maggiormente sono emersi da questa ricerca.
In primo luogo, non è stato riscontrato un incremento delle malformazioni dovute all’effetto tossico della chemioterapia: lo studio ha, infatti, dimostrato come non esista alcun collegamento tra l’insorgere della malattia tumorale, lo svolgimento del trattamento chemioterapico e le possibili malformazioni congenite del neonato.
In secondo luogo, l’analisi ha potuto evidenziare come non vi sia alcun rischio di recidive di carcinoma mammario nella donna.
Anche se è stato confermato come la gestazione sia sicura tanto per il bambino quanto per la mamma, non soggetta ad un peggioramento della prognosi oncologica, è pur sempre necessario un costante monitoraggio della gravidanza: è stato, infatti, osservato un aumento del rischio di nascite sottopeso (+50%), un ritardo di crescita intrauterina (+16%), un aumento della casistica di parto pre-termine (+45%) e dei cesarei (+14%) rispetto alla popolazione generale.
In sintesi, questo importante studio ha avuto l’indiscusso pregio di rimarcare il concetto secondo il quale ammalarsi di cancro non compromette l’opportunità di realizzare il sogno di diventare mamma e di aver, altresì, confermato come la diagnosi precoce di carcinoma mammario in giovane età non debba conseguentemente portare ad una rinuncia al desiderio di maternità, che potrà essere coltivato sin dal momento della scoperta della malattia, anche per offrire subito alla donna il percorso migliore di preservazione della fertilità.
Il disagio psico-sociale connesso alla possibile infertilità dovuta all’inizio di trattamenti antitumorali è infatti una tematica sempre più attuale.
Oggi l’obiettivo del trattamento delle pazienti oncologiche non è solo la loro guarigione ma anche la tutela e salvaguardia dei loro obiettivi futuri, compresi quelli di una progettualità familiare.
Per questo è fondamentale che tutte le pazienti, cui è stato diagnosticato un tumore in età riproduttiva, vengano adeguatamente rese edotte, da un lato, dei possibili effetti collaterali dei trattamenti antitumorali (in particolare, della chemioterapia), quali il rischio di riduzione o di perdita della capacità riproduttiva ma, dall’altro, anche delle strategie e delle efficaci tecniche attualmente disponibili per preservare la fertilità.
Per le giovani donne che devono sottoporsi ad uno o più cicli di trattamento antitumorale, la scelta dipenderà da diversi fattori, quali l’età e la riserva ovarica della paziente (vale a dire, la quantità di follicoli ed ovociti presenti nelle ovaie), la tipologia di trattamento programmato, la diagnosi, la presenza o meno di un partner nonché il tempo a disposizione prima dell’inizio della terapia.
Ad ogni modo, le principali tecniche consigliate dal medico sono essenzialmente tre.
La prima consiste nel prelievo e nel congelamento degli ovociti.
La metodica richiede un ciclo di stimolazione ormonale farmacologica della durata di circa 10-15 giorni prima dell’inizio dei trattamenti oncologici, seguita dal prelievo degli ovociti sotto guida ecografica mediante una procedura invasiva della durata di circa 10 minuti che, in Italia, viene eseguita in anestesia generale o locale in regime di day surgery, con successiva valutazione, selezione e crioconservazione degli ovociti raccolti.
Tra le tecniche di crioconservazione, attualmente la crioconservazione di ovociti maturi è l’unica ad aver portato a risultati affidabili ed è per questo che viene considerata la tecnica standard dalle principali linee guida mediche nazionali ed internazionali.
Qualora la donna, prima di iniziare i trattamenti, decidesse di congelare i propri ovociti e la gravidanza non dovesse radicarsi per vie naturali, si potrebbe comunque ricorrere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (PMA) che mirano ad ottenere una gravidanza attraverso la manipolazione extracorporea dei gameti (gli ovociti nella donna). Tra le principali si ricordano l’inseminazione intrauterina (IUI), la fecondazione in vitro con trasferimento dell’embrione in utero (FIVET) e l’inseminazione intracitoplasmatica di ovocita e trasferimento di embrioni in utero (ICSI).
La seconda tecnica di preservazione della fertilità consiste nel prelevare e congelare parte del tessuto ovarico.
Ancorché sia considerata una tecnica per certi versi sperimentale, è comunque efficiente perché offre importanti prospettive per preservare sia la funzione riproduttiva sia, più in generale, la funzionalità ovarica. Rispetto alla crioconservazione ovocitaria, infatti, ha il vantaggio di non richiedere alcuna stimolazione ormonale e può essere effettuata in qualsiasi momento del ciclo mestruale, senza comportare alcun rallentamento del programma di trattamento chemioterapico. La procedura prevede un intervento chirurgico laparoscopico (eseguito, cioè, mediante l’utilizzo di sonde inserite in addome attraverso piccole incisioni sulla parete addominale) finalizzato a prelevare frammenti di tessuto ovarico che verranno poi crioconservati e potranno essere successivamente reimpiantati (con un nuovo intervento molto simile al precedente) quando la paziente desidererà cercare una gravidanza al termine dei trattamenti antitumorali. In quanto sperimentale, questa tecnica può essere attuata soltanto in centri dotati di adeguate strutture e competenze che utilizzano protocolli clinici ampiamente condivisi.
La terza tecnica consiste nella somministrazione di un farmaco prima e durante i cicli di chemioterapia che protegge le ovaie dagli effetti nocivi del trattamento.
In pratica, la funzione ovarica viene preservata mettendo, per così dire, “a riposo” le ovaie, attraverso la somministrazione di sostanze farmacologiche che ne bloccano l’attività, come gli analoghi antagonisti LH-RH.
È importante sottolineare come anche questa tecnica, a differenza della crioconservazione ovocitaria, consenta di preservare non solo la fertilità ma l’intera funzione ovarica, con conseguente maggiori probabilità di ripresa del ciclo mestruale dopo il trattamento chemioterapico.
Inoltre, questa strategia può essere eseguita anche in associazione alle tecniche di crioconservazione, aumentando ulteriormente le probabilità di una futura gravidanza al termine dei trattamenti.
A prescindere dalla tipologia suggerita dal medico e seguita dalla paziente, prima di cercare una gravidanza è consigliato comunque attendere un lasso temporale di almeno un anno dal termine della chemioterapia ed almeno sei mesi dalla conclusione del trattamento farmacologico (ad esempio: tamoxifene).
Il numero di persone che si ammala di cancro è in aumento ma grazie ai programmi di prevenzione, alla diagnosi precoce ed ai costanti progressi nel trattamento di questa patologia, sempre più persone guariscono da questa malattia.
Poter pensare alla nascita di un figlio, dopo aver superato la malattia ed i trattamenti, ha un effetto positivo sull’equilibrio emotivo della paziente e diventa anche un modo per poter tornare a programmare i propri progetti di vita personali.
Diventare mamma è dunque possibile.
Perciò, continuate a cullare questo vostro sogno.
E non abbiate timore di riprendere in mano la vostra vita.
Di Dr.ssa Paola Mortola, Ginecologo – Specialista ambulatoriale convenzionato ASL 5 – Ginecologo presso LILT – Sezione di Genova